Sanguineto è donna.

Sanguineto è vita.

Sanguineto è caparbietà.

Sanguineto è amore.
Se fosse un colore sarebbe rosso.
Rosso di vitalità, di sangue, di argille, di carne.

Il vino scorre nelle vene di Dora e Patrizia, ma è anche la caccia a farla da padrona.
Dora, negli anni, ha acquisito il rispetto dalla comunità venatoria della zona, grazie alla sua incredibile abilità, tanto da diventare capo del distretto di caccia locale.
Una cosa seria, da queste parti. È proprio con una mannaia in mano che ci accoglie nella calura dell’ultimo sabato di Luglio.

“Sto porzionando il cinghiale cacciato giovedi, che fate, rimanete a pranzo?”
È da qui che inizia tutto.

Ma come nasce Podere Sanguineto?

Lo sviluppo aziendale era teso già a produrre vino per andare in bottiglia nella metà degli anni ’60, con il padre, a Montepulciano, nel cuore della bellissima Val d’Orcia.
Al tempo stesso quest’ultimo, si inventò anche il caseificio per la trasformazione diretta del loro latte, con un ingente numero di capi di bestiame. Dora fu l’unica figlia, su nove, a credere in maniera viscerale nel progetto Sanguineto, volendo comunque proseguire l’attività agricola di famiglia.

“Mio padre aveva sette toppe sulla camicia, con tutti i sacrifici da lui fatti, come potevo deluderlo?”

Questo fa capire quanto amore, nonostante le avversità nel corso degli anni, ci sia da parte di questa donna per la propria terra.
Quanto sudore è caduto dalla sua fronte per mantenere in piedi Sanguineto.
La pelle è segnata dalla fatica.
Le mani sono quelle di una vera contadina che zappa la terra, quando serve.
Ogni sua parola è evidenziata da un grezzo intercalare toscano, abbassa ed alza i toni, rallenta ed aumenta il ritmo, a seconda dell’importanza del discorso.
Le uve di Sanguineto venivano vendute principalmente al sud -ça va sans dire- ed in parte in Piemonte, anche se negli ultimi anni, prima di imbottigliare, erano le più ricercate dai “vicini di casa”: aneddoti questi che non si possono trascrivere, anche se con veemenza raccontati dalla vulcanica Dora.

Dopo lo scandalo del metanolo, in Italia, come ben sappiamo, ci fu un completo cambio di mentalità e la corsa a strutturare un potenziale di mercato di difficile gestione. Tante aziende, difatti, nacquero proprio nella metà degli anni ’90. A Sanguineto servirono dieci anni per il primo imbottigliamento (1997) in cui -nei primi tre- le uve in parte venivano sempre vendute, soprattutto a Montepulciano.

Così, anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia, maggiore era la consapevolezza, sempre meno uve venivano vendute e sempre più bottiglie marchiavano quella che di li a poco sarebbe divenuta la cantina più rappresentativa di Montepulciano.
Una giornata da Dora e Patrizia ricarica l’anima, tra aneddoti e battute, tra urla, incazzature e tante risate, con la compagnia del “cicerone/amico” Leonardo Bifolchi, uno di casa, ormai.

Prima di salire sopra per pranzo, ci assaggiamo qualcosa nella saletta del Podere.
L’energia che Dora mette in vigna è riposta pari pari nei vini:
Il Bianco 2019 è polposo e ancora avvolto da quei profumi panificati dei suoi lieviti.
il Rosso di Montepulciano 2018 sa di susina in maniera sconvolgente, sembra di averla nel bicchiere, più avvolgente e più elegante della 2017.
Il Nobile di Montepulciano 2017 sfoggia un artiglio che non mi sarei mai aspettato, graffiante.
La Riserva 2015 è frutto e iodio, estremamente lungo ed elegante.
Questi i quattro vini prodotti al Podere Sanguineto, dove Dora si occupa della vigna e della cantina, e Patrizia della commercializzazione, una macchina che corre a tremila!!

Ma il bello deve ancora venire.

Saliamo nell’abitazione.

Tre cani ci vengono incontro, di cui uno, il più piccolo di taglia, se non gli vai a genio, ti sferra qualche colpo basso; per fortuna gli sono entrato subito nelle grazie e mi sono potuto godere il pranzo.

Non c’è nessuna finzione o forzatura, quella è la vita di tutti i giorni.
Un fare contadino che in molte realtà non è stato tramandato, qua è la spontaneità a dominare la scena.
Con un boccione da 1 litro di Campari riempito con lo scarto del bianco che va in bottiglia (vino della casa) brindiamo alla vita.

Spalla di due anni con fichi freschi appena raccolti.
Trippa di cinghiale, da sballo.
Tanto prugnolo gentile.
Sono un po’ come le canzoni di Rino Gaetano e De André: intramontabili.

Rimaniamo piacevolmente a tavola senza mai guardare l’orologio, il tempo è velluto su cui poggiarsi e farsi trasportare.

A pranzo finito torniamo sotto.
Patrizia ha in mano una bottiglia senza etichetta.
Il tappo rimbomba alla sua apertura.
Vin Santo 1999.

Non sono un amante dei vini dolci, ma questo di sdolcinato non ha proprio niente.
Sferzante di acidità e di sale, magnifico.
Proseguono le chiacchiere e gli aneddoti, quando Patrizia arriva con un’altra bottiglia senza etichetta: il primo Vin Santo fatto da Dora, 1978.

Con molta emozione -Dora- ci racconta la storia di quella vinificazione.
“A detta di mio padre avrei dovuto seguire dei canoni stabiliti, ovvero aggiungere bisolfito e prendere solo lo “stretto”. Il problema è che i caratelli non si riempivano, il bisolfito non ce lo avrei messo manco sotto tortura, e così, presi “i cinque minuti”, li chiusi col cemento!
Da lì nessuno avrebbe più potuto assaggiarlo.
Eccolo il grande rimorso, non averlo fatto assaggiare a mio padre per paura del giudizio, in quanto scomparso proprio mentre il vino stava maturando nella botticella”.
Una lezione di vita che servì a Dora per assumersi tutte le responsabilità del proprio operato, crescendo molto, professionalmente.
Questo permise altresì di non avere mai più paura del giudizio della gente, affrontando ogni situazione a testa alta.

Tutto questo è Sanguineto.
Tutto questo è vita.