In maniera netta, decisa, tagliente.
Mi chiedono quale sia il più buono dei tre.
Difficile dare una risposta, anche se in realtà dentro di te la sai molto bene.
Una risposta che può essere offuscata dalla differenza di vigna e di millesimo, lo so, ma in fin dei conti ce ne freghiamo.

Vorresti spezzare il capello in quattordici parti.
Vorresti andare a trovare il famoso pelo nell’uovo, che chissà quanti peli conteneva quest’uovo;
ma anche che palle.

Alcuni vini, purtroppo, fanno parte di una dimensione parallela, la quale si discosta dalla reale vita di tutti i giorni.

Bevendone talaltri ti accorgi di come la leggerezza debba essere una compagna della vita.
Ci prendiamo sul serio troppo facilmente, ma in fondo siamo briciole davanti alla dimensione reale della vita. Il vino è qualcosa di talmente semplice che riesce a farti toccare corde, a volte, che nemmeno sapevi esistessero. Alcuni vini trasmettono elettricità erotica, altri una lisergia allucinogena, ma a che prezzo? Un capitolo alquanto spinoso, vedendo, oggi,  i prezzi che spuntano certe bottiglie, avvicinabili solamente da un elite di persone, le quali magari acquistano solo per fare a gara a chi ce l’ha più lungo, il tappo.

Dipende come, con chi, quando e perché.

Queste bottiglie, comprate alla loro uscita, avevano ancora un senso (parlando in maniera venale di soldi), oggi che spuntano prezzi a tre zeri, non saprei quanto. Ringrazio sentitamente chi le ha condivise in una serata a dir poco luminosa.

Clos de Beze 2002 Prieuré Roch
insiste tutta la parte più libera e naturale che esista, quando parliamo di vino.
È un tripudio di colori: dal rosa, al blu, all’arancio, passando per il viola.
È tutto quello che cerchi in un vino.
Un naso esplosivo di incenso e crisantemi, di sagrestia e di agrume, di lillà.
Di frutto soffuso ma ben presente, quando serve.
Una leggerezza indescrivibile.
Una profondità mastodontica per il peso.
È tutto legato alla perfezione.
Uno dei tre vini rossi più emozionanti mai bevuti dal sottoscritto.

Grands Echezeaux 2001 Romanee Conti
è preciso, discreto, come un uomo di mezza età. Veste di camoscio, bianco.
Cammina in maniera impettita, quasi rigida, non una parola di troppo, sembra quasi dare del lei.
La concessione è qualcosa di personale, l’empatia pure.
Ho bevuto solo tre volte i vini del Domaine, la prima che bevo il Grands Echezeaux.
La spezia e il frutto che vanno e vengono.
L’agrume che scompare, riappare.
È come un gioco di trasparenze e illusioni.
È un tira e molla di sensazioni.
Imperturbabile.

Comte Georges de Vogue Musigny 1989
appena aperto sembrava un Barolo di fine anni ’70, non un grande complimento, con tutto il rispetto per il Barolo.
Sapeva di foille, quella crema per le bruciature con la confezione gialla.
È uscito con la dovuta cautela dal guscio, prima le antenne, come le lumache, poi testa e corpo.
Ad un certo punto ero un tutt’uno col vino, non ho capito se ero io dentro al bicchiere oppure il vino dentro di me.
È stato uno scambio affine, consapevole, quasi amichevole.
Vino molto mobile, di gran sapore, di frutto ancora in mostra, niente cenni di decadenza come avrebbe potuto far presagire inizialmente.
Un’ondata di pinot nero che pervade le viscere.

Ah, ma alla fine qual’è stato il vino più buono dei tre?