Un paio di giorni prima del solstizio d’estate, dove ancora i raggi del sole sembrano non riscaldare come dovrebbero, la prima giornata di calore l’abbiamo avvertita già appena partiti da casa.

 

Le svolte per arrivare sulla “Chiantigiana”; il panorama che si apre a ventaglio, disegnando, ad ogni curva, un paesaggio che sembra colorato a pastello.

 

Una delle prime vere giornate di sole, di caldo.

 

Montebernardi ha una storia molto antica.
Venne fondata nel lontano 1085, anche se un’ala faceva parte della proprietà di Monterinaldi (azienda raddese).
Questo luogo magico fu dato in dono alla figlia, la quale, per omaggiare il marito –Bernardo, appunto- chiamò così l’attuale Azienda Agricola.
Fino alla fine degli anni ’70, Montebernardi, fu di proprieta della famiglia fiorentina dei Bonsegni, i quali possedevano anche altre proprietà nella zona tra Panzano e Greve. Quando la mezzadria scomparì, i padroni decisero di vendere le singole aziende perchè non potevano più permettersi di assumere i contadini come dipendenti.
Iniziarono così ad arrivare investitori forestieri da Roma, da Milano e dalla vicina Impruneta, i quali purtroppo non conoscevano niente della vita di campagna e delle pratiche agricole, venendo da altri settori.
Ecco che si perse gran parte delle conoscenze dei vecchi contadini, in quanto le nuove generazioni di allora, di lavorare la terra, non ne volevano sapere.

 

Un ritorno al passato.

 

Dal 2003 al timone dell’azienda c’è un italo/canadese –Michael Schmelzer– il quale, sin da subito, ha avuto le idee molto chiare: voleva riportare indietro questi semplici concetti che si stavano perdendo.

 

Dal giorno “uno” iniziò con le pratiche della biodinamica, anche se, con il passare degli anni, si rese conto che alcune operazioni non erano funzionali alla sua azienda, per cui continuò con il proprio ideale senza volersi per forza incaponire verso qualcosa di cui non si crede fino in fondo, ma si fa solo perchè lo dicono gli altri.
Michael parla con la gioia di qualcuno che deve preservare la propria terra per le generazioni future.

 

 

Nessun diradamento.
Nessuna cimatura.
Nessun tavolo di cernita.

 

Si cerca il massimo equilibrio in vigna:
scelta accurata dei portainnesto, densità d’impianto tutto fuorchè fitta, gestione spasmodica della parete fogliare.
Tutto nasce dalla vigna.
Un lavoro maniacale per accompagnare l’uva in cantina senza massacrarla. Assisterla senza domarla.
Non è stato creato niente di nuovo a Montebernardi, ma la vera forza sta nell’unione delle pratiche agricole di una volta, alla conoscenza di alcune tecniche moderne, ma soprattutto, Michael, ha capito immediatamente cosa non avrebbe voluto nei suoi vini, dopo gli studi di enologia e le varie esperienzie in cantine Australiane, le quali usavano pratiche troppo invasive. Tutto questo ha aderito perfettamente alla sua idea di agricoltura.

 

Alcuni aneddoti di cui il vignaiolo va molto fiero.

 

Una di queste vecchie pratiche, in disuso oramai, riguarda i pali di castagno usati in vigna.
Anziché trattarli con rame come hanno fatto per 30 anni, vengono bruciati alla base, per far si che non si consumino e non venghino mangiati dalle formiche.

 

 

Come i vecchi contadini, l’Italo/Canadese va al torchio e pressa oltre 3 bar, quando le vinacce escono ci si può soffiare sopra e non c’è un tocco di umidità, è stato preso tutto quello che poteva dare l’acino.
I tannini sono di altissima qualità, la torchiata cosi forte da sapidità, lunghezza e longevità al vino.

 

Bastano pochi minuti per capire come Michael ragioni come un vecchio contadino della zona.

 

Fa spesso paragoni con la cucina (mestiere che tra l’altro ha praticato per diversi anni):

 

“uso tutto come un buon cuoco con un animale.
Troppo facile usare solamente il filetto…”

 

Ad esempio, in annate più fresche, dove ha più acidità e meno tannini naturali, usa più raspo.
Inoltre quest’ultimi, essendo ricchi di potassio, si legano con l’acido tartarico e depositano, in pratica sono disacidificatori naturali.
Chiaramente per lavorare in questo modo serve tanta sensibilità, ma soprattutto tanta conoscenza.
Tutto passa dalla conoscenza: conoscere i propri terreni, le proprie piante, le proprie uve, i propri vini e quegli degli altri.

 

“Appena uscito dalla scuola di enologia davo molta solforosa in vendemmia, ma perché devo farlo se ho un’uva sana? Solo perché mi hanno insegnato così?
In cantina forzavo la malolattica, anche questa pratica invasiva l’ho lasciata alle spalle”.
Questo ha permesso ai suoi vini di essere più liberi, piu espressivi, piu aderenti ad un’agricoltura maggiormente naturale.

 

“Ho imparato, negli anni, a ragionare con la mia testa, anche sbagliando, ma questo mi ha permesso di maturare ed acquisire molta sensibilità”.

 

Bilanciamento.

 

Il triangolo ideale dovrebbe essere il bilanciamento tra la parte di praticabilità, la parte economica e la parte di qualità. Questo doveva essere il primo passo su cui fondare l’azienda. E così è stato.

Un vecchio libro dove si tenevano tutti i conti per il bilancio della mezzadria.

 

Oggi l’azienda conta 25 ettari, 15 tutti attorno alla proprietà, 10 acquistati lo scorso anno, sopra Panzano, a 550 metri s.l.m, in cui si trova un appezzamento piantato nel 1930, del quale Michael sembra davvero esserne entusiasta. Il prossimo anno vedremo l’uscita di un nuovo vino, proprio da questa zona!

 

I terreni intorno alla cantina sono molto variegati:
la maggior parte delle vigne è composta da galestro rosso e bruno, il più comune a Panzano. La vigna dove nasce la riserva -“Sa’etta”- piantata nel 1968, è composta prevalentemente da alberese, con carbonite e quarzo scuro, dove, al suo interno, sono presenti anche piante di canaiolo, malvasia e trebbiano, col classico “impianto largo” di una volta. Altra caratteristica dei terreni è la Pietra Forte.

 

Vigna della riserva “Sa’etta”

 

Questi terreni molto sassosi caratterizzano i vini di Montebernardi, al contrario di quelli provenienti dalla Conca d’Oro, sempre a Panzano, un’area che ha visto periodi ben migliori.

 

Pietra Forte

 

La cantina è minuscola.
Un vecchio torchio al suo esterno ed alcune vasche d’acciaio.
Tre vasche in cemento al suo interno, nelle quali ci fermenta le vigne vecchie su bucce e raspi.
Qualche botte di legno grande e tonneaux per l’affinamento.

 

I vini hanno una polpa, un sale, una chiantigianità per niente forzata, sono luminosi e vivaci, mai sguaiati, mai urlati, pieni di dettagli.
Il Chianti Classico 2018 ha un frutto bellissimo, turgido, misto a pietra e fiore blu. Un vino che sembra scomparire appena deglutito, ma che risale la china e torna pieno di succo e sapore. Richiama a gran voce una tavola imbandita di ciccia, ma, perchè no, una bella pappa al pomodoro.
La ex riserva 2016, declassata a igt per “colore troppo scarico, struttura non adeguata e nota legnosa non in evidenza (!!!) ha un’acidità che strizza, accecante di luce, felice e vivace. Molto mobile al palato con cenni d’agrume.
la Riserva “Sa’etta” 2016 è la completezza dei due precedenti. Polpa, rigore, presa di palato più imponente, tannino gessoso, fitto, saporito. Un allungo da grandissimo vino.

 

Non è necessario essere nati e cresciuti in un luogo per poterlo interpretarlo al massimo, ne abbiamo l’esempio lampante qua a Panzano.