Il vino inteso come mezzo e non come fine.

Ha unito nei secoli intere popolazioni, intrecciando culture assai lontane, rapendo l’anima di ognuno di noi.
Un movimento intriso di forme d’arte, di storia, di letteratura.
Un movimento sociale, nonché culturale, il quale ha la forza nascosta dell’unione, della condivisione, dell’amicizia.

Sembra una meta assai difficile da raggiungere, vuoi per la fama della storica cantina di Cachè -fondata nel 1664– vuoi perché non c’è uno stralcio di indicazione per raggiungerla, almeno così mi è stato riferito, non avendo mai avuto il piacere di andarci.

Quando si parla dei Fratelli Foucault si parla della cuspide del Cabernet Franc, si parla del culto della viticoltura ancestrale, non solo della Loira, ma dell’intero globo terracqueo. Cachè è uno dei nove comuni facenti parte de l’appellation d’origine contrôllée Saumur Champigny, nata nel 1957, dove il Cabernet Franc è arrivato da Bordeaux, pare via mare da Nantes, allora provincia Bretone, da qui il nome “Breton”, affibbiato localmente a quest’uva.

Dopo due anni dalla scomparsa di uno dei due fratelli –Bernard, detto “Charly”il Domaine nel 2017 viene venduto, interrompendo così una conduzione familiare che durava da OTTO generazioni, passando nelle mani di Martin Bouygues, già proprietario di Château Montrose -Saint Estephe- “Nady”, l’altro fratello Foucault si è dimesso da consulente nell’Ottobre dello scorso anno, in quanto preesistevano molte divergenze con l’enologo attuale. L’ultima annata con Naudy in cantina è stata la 2014.

Dal Domaine trapelano notizie incoraggianti riguardo allo stile dei vini, rimasto a detta loro pressoché identico, questo sarà sicuramente da valutare negli anni a venire.

Quando si parla di certi vini, di certi vigneron, si rischia di cadere in frasi retoriche, ma i vini di Clos Rougeard sono davvero “l’emblema della lentezza”. Non si segue il mercato, ma solamente il ritmo del vino, il suo respiro naturale.

La Revue du vin de France nel 2006 scrive proprio questo: “il pendolo dei Foucault cadenza i tempi di un’altra epoca”. E proprio collegandosi a questo viene in mente il romanzo di Umberto Eco, ma soprattutto quel pendolo che venne appeso nel 1851 al Pantheon di Parigi da Léon Foucault, il quale voleva dimostrare, dopo la Teoria copernicana, la reale rotazione terrestre. Il fisico Francese attaccò una sfera di 28 kg ad un cavo di quasi settanta metri. Lasciando oscillare il pendolo, Foucault, stava dimostrando al Mondo intero che quest’ultimo disegnava delle linee sotto di esso. Tali linee stavano ad indicare che era il terreno sottostante a muoversi, non il piano di oscillazione del pendolo.

I vini di Clos Rougeard, oltre che in cantina, richiedono tempo anche nel bicchiere.
Oscillano tra toni umorali e terrosi, carnosi e maturi, allo stesso tempo fini e slanciati. Nel bicchiere hanno picchi altissimi, per poi chiudersi a riccio e scodare con una nonchalanche unica.

I rossi, quando il millesimo lo permette, sono tre:

“Le Clos”, anche se in realtà sull’etichetta troverete scritto solamente “Saumur Champigny”, ovvero l’assemblaggio di due parcelle.

“Les Poyeux”, anche se non ha la fama interstellare del “Le Bourg”, si merita tutta la vetrina che gli spetta: la sua storia in bottiglia inizia quasi un secolo prima del fratello maggiore, e le bottiglie degli anni ’30 e ’40, pare siano ancora in splendida forma. Tre ettari piantati sud/sud-est, su suolo silicio/calcareo. Elevage in barrique vecchie.

“Le Bourg”, appena un ettaro piantato su suolo argillo/calcareo nel cuore del villaggio di Caché, con vigne di oltre 75 anni di età. L’emblema del Cabernet Franc, un soffio che sposterebbe un albero.

Un altro ettaro piantato a Chenin, ricadente nella denominazione Saumur Brèze, riferimento anch’esso della denominazione stessa, e non solo.

Dinanzi a certi vini la suggestione rischia di prendere il sopravvento e la valutazione venir sovrastata dall’emozionalità; il potere figurativo dei Focault è sicuramente un aspetto di rilievo, se poi ci aggiungiamo la scarsa reperibilità delle bottiglie, il gioco è fatto.

Di seguito vi racconterò la giornata che ho organizzato all’Enoteca Fiorentina, lo scorso Febbraio.
Sette vini di sette annate, dalla 2007 alla 2013, in una giornata interamente dedicata ai Franc più eccitanti e più ricercati del Globo.

“Les Poyeux” 2007
Inizio compresso, scuro. Si muove lento, il frutto rimane nero di mora, il terriccio si fa da bruno a rossastro, la legna arde. Esce una parte cerottata, ed è proprio la cicatrice quando risargisce che dona una propria identità. Vino che non potrà MAI essere fine e preciso, ma è il suo “sghembo” che lo rende uno dei più intriganti della batteria.
Buono! Anzi, molto buono!

“Les Poyeux” 2008
Lui è timido. Lo capisci sin da subito, non appena lo avvicini alle narici. Ma capisci anche la sua carica esplosiva al momento che scorre nel tuo esofago. Esplode alla pari di una composizione C-4. Ceste di frutta, mature, in retrolfattiva, estratto secco paragonabile ad un Amarone (no, forse ho esagerato!) comparazione questa, che mi sposta la percezione proprio per la sua discrepanza gusto/olfattiva. Un vino di carne al palato, di guanto bianco all’olfatto, ma come i migliori vini, le due caratteristiche si sovrappongono e ne esce fuori una discreta completezza.

“Les Poyeux” 2009
Disunito fin da subito. Esce, ora l’alcol, ora un tannino che marca a fuoco, grezzo e sciancato. Alcol che figura 12.5, eppure si sentono tutti. Si sentono perché la materia è sfibrata, le fondamenta, almeno di questa bottiglia, sono deboli. Non è sicuramente al meglio il vino, il quale denota cenni di mon cheri e genziana, quasi liquore alla genziana. Sembra ridimensionarsi per qualche minuto, ma poi torna nel baratro della discesa. Peccato.

E qua potremmo tirare una linea retta.

“Le Clos” 2010
L’inizio mi da ai nervi. È dolce, sa un po’ di vaniglia, un po’ di cocco, quello della fiera sotto l’acqua grondante, non quello che trovate in spiaggia. Il palato non mi smuove di un centimetro. Entrata fastidiosamente morbida, dove nel finale accolgo un eco di una freschezza balsamica, rinfrescante, ma soprattutto rincuorante!
Quando ormai lo credevo defunto, uno sbuffo di te verde me lo fa riapprezzare e rientrare in carregiata. Acquista tensione anche in bocca (boh!) perde quel frutto zuccherino riscontrato inizialmente, acquisendo maggior carattere e spigliatezza.
Un vino da un millesimo strepitoso per Clos Rougeard, ma schiacciato un filo dai “vicini”, sia come profondità che come allungo.

“Les Poyeux” 2011
Il timbro è più simile alla 2010 rispetto ai tre millesimi precedenti, anche se questo vino, pur avendo una quota di dolcezza fruttata, ha una quantità di sale pari alla metà delle intere saline di Margherita di Savoia. Viene sporcato da un legno secco che mi ricorda la corteccia bagnata, ma questo non influisce, a mio avviso, sulla bontà del vino. Bevuto in questo momento, uno dei più a fuoco. Stappare!

“Les Poyeux” 2012
Tralasciando la menomata 2009, questa è stata la bottiglia più deludente della giornata. Fastidioso come Suso quando cammina in mezzo al campo. Dolcezza rimarcata all’ennesima potenza, di nuovo! Poi vedremo quella linea retta che avevo tirato poc’anzi. Ancora quel legnetto secco, adesso sembra proprio essere quello con cui accendiamo il fuoco. Attacco di bocca che pari te magni in un sol boccone, ma dura come un gatto sull’Aurelia. Verdastro. Rivedibile, non bocciato!

“Le Clos” 2013
La trama lignea, con tralci secchi, è il comun denominatore degli “over” 2010. Qua però si scorge fin da subito una diversa soupplesse. Carezzevole e poco imbrigliato, si lascia andare dopo poco, mirando lontano. Melagrana, alloro, ribes, eucalipto.
Forse il vino più colorato dei sette, anzi, togliamo il forse! Copiosa è la sua trama che insiste su delicatezza e sale. Una saporosità simile a quei Franc buoni provenienti dalla Loira, adesso mi sfugge come si chiamano…
ah, Clos Rougeard!!!

Tirando le somme e tornando su quella immaginaria linea retta tracciata tra il 2009 ed il 2010, ho riscontrato una notevole differenza nei vini. Ante 2010 mi sono sembrati più terrosi, più umorali, più sanguigni, più maturi nel frutto, più sarcigni nella trama tannica, insomma più “Poyeux”. Ovviamente dalla 2010 (compresa) in avanti, non prendendo in causa i due “Clos” -ovvero 2010 e 2013- i “Poyeux” li ho trovati più dolcini, più femminili volendo (2011) con meno energia (2012). Invece ho dovuto ricredermi sui “Clos”, trovati sempre, negli assaggi precedenti, con poca verve. Questi sono vini che in bottiglia si muovono parecchio, riuscendo anche a ritrovare forza ed energia, quindi, soprattutto la 2012, mi piacerebbe rivederla fra qualche anno, perchè sono sicuro che ne uscirà molto meglio.

Prosit.