A metà pomeriggio di un giorno d’inizio febbraio, Leonardo, fido compagno di bevute dai tempi del corso di sommelier, mi chiama per dirmi che da Burde si sono liberati due posti alla cena con degustazione alla cieca dei  “Pinot Nero dell’Appennino Toscano contro tutti” e che, se vogliamo, siamo stati ripescati dalla lista d’attesa.

“Che gran botta di c..ehm.. fortuna”, mi viene da pensare, e nonostante quella stessa sera si sia palesata per me la possibilità di sognare altrove, accetto di buon grado senza che ritenga necessario valutare più a lungo del tempo di un “sì, andiamo.”

Veniamo fatti accomodare su un tavolo defilato rispetto alla sala, forse destinato proprio alle riserve, piazzato direttamente difronte all’ingresso della cucina, da cui però si può assistere come da un palco d’onore allo spettacolo privato e meraviglioso della brigata di Burde al lavoro: una schiera di Valchirie urlanti e scapigliate, di stazza e ghigno analoghi a quelli di tornite lottatrici di wrestling, belle come Erinni vendicatrici della vera cucina toscana, invasate come Menadi danzanti su fumanti e magmatici pentoloni pieni di unte leccornie.

Le guardo ripetutamente durante il corso della serata e penso di aver visto poche volte un quadro in movimento così avvincente, così penetrante, così pervasivo.

Con grossa sorpresa e piacere si siede al nostro tavolo anche Paolo Cerrini, vigneron mugellano, artefice, e non uso l’epiteto in maniera casuale, di quella che per nulla casualmente è la mia personale e preferita interpretazione del Pinot nero coltivato in Toscana, il Rio.

“Che gran botta di c..ehm… fortuna”, penso per la seconda volta.

Paolo Cerrini negli anni Novanta ha rinunciato al suo lavoro di artefice nell’ambito della produzione orafa fiorentina, si è innamorato delle montagne mugellane e fortuna ha voluto che il suo amore più grande, la moglie Manuela, abbia condiviso le sue scelte e che insieme abbiano plasmato una delle realtà più pure e di così sincera e sorprendente umiltà nel mondo della viticoltura, che ogni volta che li incontro e che ho modo di scambiare con loro chiacchiere ed impressioni, ciò che mi resta, al di là della piacevolezza rinnovata nella degustazione dei loro vini, è quella sensazione che lasciano le scie degli aerei quando si stagliano nette e precise su cieli di cobalto.

Ha a che fare, suppongo, con quella che molti chiamano pace.

I vini cominciano ad essere serviti alla cieca e provochiamo Paolo sulla possibilità che sappia riconoscere o meno la sua creatura, il suo vino, in mezzo a tutti gli altri. Placido ma con un sorriso sornione ci risponde “temo che voi mi sopravvalutiate, ma nel dubbio dirò che sono tutti vini straordinari!”.

Il vino numero uno è nei bicchieri di tutti. Guardo Paolo che rimane impassibile, lo annusa, lo beve, mentre tutti quanti noi cominciamo a fare ipotesi ed illazioni. Ma certo quello non è suo figlio, i suoi occhi non brillano.

Il vino numero due  ha un colore più scarico rispetto al precedente e meno invasivo il legno al naso con richiami di scorza di arancio rosso e note ematiche. Paolo lo beve e io so già che neanche questo è figlio suo.

Viene servito il vino numero tre. Paolo inarca un sopracciglio, cambia espressione. Forse intuisce qualcosa nel colore così scarico e in effetti anche a me non pare troppo dissimile da quanto io stessa ricordi del suo pinot nero. Al naso è lieve, femminile con richiami a piccoli frutti rossi, ben equilibrato. Molti di noi si espongono ed esclamano: “Eccolo! Eccoti!”. Guardo Paolo, lo beve, sorride e posa il bicchiere sul tavolo. Gli piace, si vede, ma non è suo figlio neanche lui.

Il vino numero quattro ha note balsamiche e mentolate, pepato e pieno in bocca. È buono, perdio se lo è. Tengo d’occhio Paolo che beve, annuisce, ma no, ancora non ci siamo.

Mi distraggo… in cucina c’è un momento di parapiglia con le fiere infernali che inneggiano imprecisate cantiche di morte contro i camerieri, il mio amore per loro aumenta a dismisura e sorrido ancora, mi volto e per caso noto che ad un gancio al muro dietro le mie spalle è appeso ad una molla un piccolo pupazzo di legno dalla sagoma inconfondibile. Chissà da quanto tempo è lì che ci guarda, pensare che non mi ero neanche accorta ci fosse. Il vino numero cinque è già nei bicchieri. Afferro una gambetta del pupazzo allungando la molla verso il basso ed ecco che questo comincia a dondolare con movimenti ondulatori verticali, su e giù. Guardo Paolo. Poi ancora le bombe in cucina. Il colore del vino. Il pupazzo che va su e giù. Paolo che ride. Paolo che ha gli occhi pieni di luce. Paolo che annusa. Il pupazzo che dondola e che ride. La cucina che è diventata improvvisamente il teatro di Mangiafuoco. Paolo che beve e il suo sorriso che si allarga in certezza.

Ho il cuore in gola e l’anima piena di sussultoria commozione.

Paolo mi guarda e fa “mi ha gettato le braccine al collo chiamandomi babbo”.

Lo so mio buon Geppetto, lo so. Hai trovato l’impertinente burattino che si è gabbato di noi tutto il tempo e che ora è lì nel tuo bicchiere e che ti ha parlato come un pezzo di legno parlò ad un falegname.

Verranno serviti altri tre vini, anch’essi interessanti, ma ormai il mio cuore è preso ed è via da lì, dondolando con la mia connessione, in un’altra storia.
Pinot Nero

 

[i vini: n.1 “Fortuni” Pinot Nero Toscana IGT, 2013, Podere Fortuna; n.2 Cote de Nuit-Villages Les Vignottes, 2014 – Antoine Lienhardt; n.3 AA Doc Pinot Nero, 2014, Franz Haas; n.4 “Cuna” Pinot Nero Toscana IGT, 2013 – Podere Santa Felicita; n.5 “Ventisei” Pinot Nero Toscana IGT, 2013, Il Rio di Paolo Cerrini; n. 6 “Gattaia” Pinot Nero Toscana IGT, 2013, Michele Lorenzetti; n.7 Pinot Nero Venezia Giulia IGT, 2007, Serafini&Vidotto; n.8 Bressan Pinot Nero Venezia Giulia IGT 2006]

 

Pinot Nero

Pinot Nero

Massimiliano Frezzato, natali torinesi, classe 1967, è un disegnatore di grande talento e fine sensibilità capace di intendere l’arte del fumetto come una porta d’uscita dalla realtà, verso la fantasia e che, grazie alla possibilità che offre di dare meno importanza alla materia reale, consente poi un rientro nel mondo tangibile integrandolo con livelli di lettura stratificati e più profondi. Nel 2006 ha ricevuto un’importante commissione da parte di una galleria parigina per un lavoro dedicato al noto burattino figlio dalla penna di Collodi. Vi si è dedicato per oltre un anno e mezzo ma al momento in cui avrebbe dovuto consegnarlo e conseguentemente venirvi retribuito, dalla Francia hanno pensato bene di darsi tutti se non per morti, quantomeno per dispersi, tanto che le meravigliose quaranta tavole realizzate sarebbero rimaste in ombra se non fosse stato per l’intuizione lungimirante di Mauro Paganelli (Edizioni Di/Il Grifo) che visionandole disse “sì, non sono affatto male, pubblichiamole noi!”, ponendole quindi in risalto sotto la giusta luce.
È quella di Frezzato una nuova proposta di lettura di una favola classica, risultato di un suo personale lavoro di analisi pluriennale, una favola che fa parte dell’immaginario collettivo in maniera trasversale sia da un punto di vista sociale che anagrafico. Si tratta di una riscrittura  decisamente fuori dagli schemi, né fumetto né illustrazione ed è estremamente varia sia per gli stili illustrativi utilizzati, che per i materiali, ma anche che per la scelta dei colori, tenui e delicati in alcune tavole e lisergici in altre.
Un’ulteriore ricchezza offerta da questo lavoro, sta nel fatto che l’autore non ha trascurato, nella sua realizzazione anche il punto di osservazione di un bambino e le sue conseguenti relazioni e reazioni umane. Frezzato ha infatti dichiarato “Lavoravo a Pinocchio e contemporaneamente vedevo crescere mia figlia. Mi chiedevo come fosse possibile che a un bambino come Pinocchio non potessero essere offerte le stesse opportunità che hanno i nostri figli. Da Pinocchio, infatti, si pretende tutto e subito. Questa la considero da sempre una grande ingiustizia. Qui ho potuto rappresentare senza parole il suo sguardo sul mondo, quello visto dagli occhi di un bambino”.
Come un adulto ha usato la sua arte per uscire dalla realtà, si è spostato nell’emisfero destro del cervello, quello preposto alla fantasia, camminando con gambe più corte, muovendosi con un corpo più piccolo, guardando con occhioni più spalancati, sentendo con un cuore più puro e come un bambino ha trasformato la realtà in un livello superiore, restituendoci un’interpretazione poetica e sognante visionabile sul suo sito web all’indirizzo http://www.massimilianofrezzato.com/pinocchio-classico/.

 

 

CONNESSIONE

V. ti ricordi quella volta che ci cacciammo nei guai?

G. quale delle volte, esattamente?

V. quella in cui finimmo per tirarcene fuori solo grazie al buon cuore di un padre.

G. eh… e allora?

V. Dovremmo dirglielo, che abbiamo finalmente capito. Il peso dell’errore e il valore di quel gesto di salvezza.

G. Sono d’accordo, ma diglielo te. Tu ci metti le parole, io gli occhioni.

V. Sì, ma levati quella sciarpa da fata turchina che fa molto avanspettacolo.

G. e te levati quell’aria da grillo parlante che fa molto scassapalle.

V …

G …

V. si va?

G. andiamo.

Vanessa Gabelli

Febbraio 2017