Tu, forestiero, che arrivi a Carema, ti accorgi di quanto sia stato abbandonato, di quanto non viga un senso di appartenenza e di preservazione.

Tu, forestiero, vedi in quelle “topie”, in quelle “tabbie”, in quei “pilun”, negli scaloni, la fatica. La percepisci dentro le ossa, anche senza salire e scendere quelle ripide vigne. Pensi a quale fatica possa pervaderti il corpo, ma non la mente. Ecco che scatta dentro di te, intimamente, la voglia di stabilirti in questo luogo fiabesco, a proseguire un qualcosa che altrimenti andrebbe man mano scomparendo.

Eccoli i vignaioli forestieri, arrivati qualche anno fa come uno sciame d’api, a ristabilire il connubio vigna/bosco.
Alcuni alla terza vendemmia, altri ancora non usciti sul mercato. C’è un gran bel movimento al confine con la Valle d’Aosta, nell’ultimo paese del Piemonte, in provincia di Torino. Sempre più ragazzi stanno venendo da fuori per immergersi in quest’avventura al limite del praticabile.

Monte Maletto, Sorpasso, Muraje, Chiussuma, Domatti Zanoni, Achille Milanesio.

Sono giovani e sfrontati, hanno una voglia incredibile di mettersi in gioco, salvando una delle zone vitivinicole più belle d’Italia. Hanno tutti un secondo lavoro, perchè con 1 ettaro/1 ettaro e mezzo, producendo un migliaio di bottiglie, non si campa!
Qualcuno mi ha confessato che non riuscirebbe, oggi, a fare agricoltura in un luogo diverso da questo.

Zone impervie, difficili da raggiungere se hai un auto larga o bassa. Tante piccole aree vocate in cui la frammentazione delle vigne è talmente imponente che per acquistare un solo ettaro si devono scomodare quasi tutti i contadini di Carema, e molte volte il risultato non è quello sperato. Si, perchè a Carema in tanti fanno vino, ma conferiscono tutto alla cantina sociale.

Passando nella lunga valle in direzione Monte Bianco, dall’Autostrada, le vigne sembrano proprio risucchiate dal bosco. Un abbandono che dura da decine di anni, nei quali, i vecchi contadini, non riuscendo più a gestire le fatiche della vigna per l’età che avanzava, essendo stati per anni (come scritto in precedenza) quasi tutti conferitori della cantina sociale -unica realtà oltre alla storica cantina Ferrando- e non avendo un ricambio generazionale, tendono ad abbandonare le vigne, facendo si che il bosco, piano piano, le risucchi a se.

Carema è qualcosa di intimo, di vero, di forte.
Ti ammalia e ti conquista e tu rimani affascinato da tutto ciò.
Gli stretti viottoli sopra al paese, le ripide salite, i pertugi nella montagna, i suoi respiri, le vigne nate sopra le frane.
Tante microzone in quello che è a tutti gli effetti un anfiteatro naturale che si staglia dietro al paese. Venti ettari di estensione vitata, pari circa ad un’azienda medio piccola toscana.

E poi c’è Airale, una conca splendida, con pochi ettari tutti esposti meravigliosamente.
È qua che ci siamo ritrovati con tutti i “nuovi” vignaioli di Carema, in una giornata estiva che ha portato il classico temporale non appena arrivati. Tutto il salame, il formaggio, il pane casereccio affettato spesso che si trovava sulla grande tavola di legno, assieme a tutte le bottiglie, sono state trasferite all’interno del rifugio adiacente, dove l’essenza del vino è venuta fuori in maniera spontanea, senza divi e dive, senza sbrilluccichii di sorta, ma con tanta sostanza.

Il nebbiolo, quassù, è chiamato Picoutener.
Quest’uva, come ben noto, ha bisogno di tanta luce e tanto calore per maturare, difatti, all’interno degli stessi terrazzamenti, insistono altre varietà locali, in quanto, i vecchi contadini, conoscendo a menadito l’area, le piantarono dove il Nebbiolo non riusciva a maturare. Gamba Ruscia (dal colore del rachide, rosso appunto) e Nerdala, sono le declinazioni del Neiret. Poi qualche pianta qua e la di Pugnet, prossimo ormai all’estinzione.
Queste concorrono in parte minima, da disciplinare, alla nascita del vino Carema.

Nel pomeriggio siamo andati a trovare la piccolissima -ça va sans dire- realtà di Muraje.
Al suo interno, in spazi angusti, saltano all’occhio una decina di damigiane di vetro, per contenere l’esigua quantità di vino prodotto.

Per cause di forza maggiore le botti sono piccole, in quanto, una botte grande, non passerebbe dalla minuscola porta della cantina, andando ad occupare troppo spazio nella stessa, ma soprattutto non ci starebbe il vino necessario per riempirla. Questo un po’ il riassunto di tutte le cantine, a Carema.

Muraje, oggi, conta circa 1,5 ha suddivisi in più di 50 appezzamenti tra proprietà e affitto.
Il nome, in dialetto caremese, deriva dai muretti a secco su cui crescono le viti.
Ogni nome utilizzato sulle loro etichette fa riferimento a qualcosa che insiste, da secoli, in questo luogo.
Dall’annata 2017 (attualmente sul mercato) il “vecchio” Kræma -oggi “Sumié”- entra della Doc Carema, in quanto, fino a tale annata, la vinificazione avveniva nella cantina di Cristoph Kunzli, anima dell’azienda vitivinicola Le Piane, a Boca, per cui non poteva fregiarsi della fascetta. Anche se quest’ultimo passaggio non è significante sulla qualità di un vino (anzi!!!) a mio avviso in questa zona è molto importante esporre con orgoglio, sulle proprie etichette, la dicitura CAREMA, proprio per quel senso di appartenenza venuto meno dagli stessi contadini locali.

Il lavoro è duro, quassù a Carema.
Il tempo non basta mai.
La campagna ti assorbe completamente.

Una zona aspra, come aspri sono i suoi abitanti. Non sono mai riusciti, anche nel Canavese, a guardare più in là del loro naso, non sono mai riusciti a fare gruppo, cosa che stanno riuscendo a fare questi giovani vignaioli, i quali scriveranno pagine importanti della viticoltura piemontese.

Ad Maiora.