A Dolceacqua era usanza affibbiare ad ogni famiglia un soprannome, in quanto i cognomi erano sempre gli stessi.

Testalonga. 

Fu questo il soprannome attribuito agli avi dei Perrino, e come tale riconoscenza per una tradizione dura a morire da queste parti, da sempre viene riportato sulle etichette delle bottiglie.

Era il Giugno del 2017. Arrivati nel paese ci chiedevamo dove fosse la cantina, vedendo solo case e ristoranti. Sbagliammo indirizzo, come spesso capita quando vai a trovare aziende minuscole. Il ponte di Dolceacqua dipinto nientedimeno che da Monet ci accecò, un vero gioiello di leggerezza, e finimmo per citofonare al campanello dell’abitazione di Nino, al di là del fiume, dove, dalla finestra, ci indicarono la cantina.

Incastonata tra i caruggi del magnifico borgo di Dolceacqua, la cantina di Antonio “Nino” Perrino, non è niente più che una stanza, con poche botti in legno, un grande tavolo e bottiglie stappate adagiate sulle mensole alle pareti.

Un grande portone marrone è l’ingresso nel tempio di un vero contadino artigianale, narratore della sua terra.

Ricordo ancora la calorosa accoglienza, le tante bottiglie stappate. Ma il ricordo che porterò con me per sempre fu quando Nino esclamò: “esco un attimo, arrivo subito”. Tornò con una bottiglia impolverata, senza etichetta, con un tagliandino apposto ed una scritta a penna che riportava l’anno 1973. Mancava qualcosa come un quarto del liquido, chiesi ad Erica come potesse esser buono quel vino, mi disse sottovoce: “non preoccuparti, aspetta e vedrai!”

Nino tirò fuori una vecchia caraffa, di quelle che si trovano nelle osterie. Ci mise il vino dentro e lo servì. Cinque minuti di silenzio tra noi e l’onirico liquido. Poi un brivido. La pacatezza con cui usciva dal bicchiere poteva ricordare dei Borgogna d’antan. Un sorso di puro piacere emozionale. Entrare a contatto da vicino con i luoghi che si frequentano girando per il Mondo, entrare a stretto contatto con le persone, uomini e donne, far parte anche solo per qualche ora della loro vita, il loro lavoro, la loro passione che si intreccia con la nostra, tutto questo è vino!

Cinquantotto vendemmie sulle spalle e tanta voglia ancora di battersi per la causa. Dal 2014 è arrivata in aiuto Erica, stanca della vita da ufficio a Montecarlo, con una carica contagiosa e l’entusiasmo di chi vuol riniziare. Ecco lo staff al completo dell’azienda, Nino ed Erica, zio e nipote. Niente agronomi, niente enologi. Circa 6000 bottiglie ogni anno suddivise in due etichette: bianco e rosso, vermentino e rossese.

Il vino è da sempre stato venduto in damigiane, dal nonno di Nino prima, da suo padre dopo. Non era apprezzato e conosciuto come ai giorni nostri. Le cantine che imbottigliavano erano solamente due: Cane Mandino e Emilio Croesi. Due nomi verso i quali Dolceacqua tutta deve grande riconoscimento.
Il primo imbottigliamento fu alla fine degli anni ’70. Il lavoro è da sempre stato molto semplice, ci racconta Nino:

Pigiamo l’uva con i piedi; fermentiamo il nostro vino in tonneaux da 500 litri -unici legni presenti in cantina- va da sé che successivamente, l’elevage, vi continua in essi.
Per tenere il vino pulito facciamo mediamente otto travasi all’anno, sempre all’aria. Nei primi tre travasi non usiamo solfiti, al quarto travaso facciamo la miscela di tutte le botti, essendo piccoli appezzamenti i vini sono molto diversi; non facciamo Cru per non complicarci le cose e le vendite. Mettiamo un po’ di metabisolfito al quarto travaso per la conservazione. Tiriamo il vino fuori dalla botte con la gomma -come una volta- a caduta scende nei tini, ci rimane per un paio d’ore, puliamo la botte, la risciacquiamo col vino e lo rimettiamo in botte. Questo è il lavoro che facciamo noi, molto semplice”.

Semplicità.

Una parola che ripetono spesso sia Nino che Erica, in una piovosa serata Novembrina, a Pistoia. Chi li conosce sa quanto poco siano inclini a spostarsi da Dolceacqua per eventi e affini, quest’anno -2019- data la sfortunata annata olivicola, hanno deciso di sbizzarrirsi in giro per l’Italia come non avevano mai fatto, e noi, felici come bambini, andiamo sempre volentieri a rincontrarli.

Assaggi.

Vermentino 2018
Seconda annata vinificata con il 100% dei raspi, dopo la prova con la 2017.
Profuma tanto di vermentino e di mare, buccioso e d’erbe aromatiche. Palato un filo scollegato, d’altronde è solo un mese che il vino è in bottiglia. Ha calore in entrata, stretto nel suo incedere ma con un fiume d’acidità. Ripassare tra diversi mesi.

Vermentino 2016 
Qua la storia si fa più matura. Dolcezza del frutto intrisa da un’ ossidazione stupefacente. Ha massa e ampiezza, ma il vino non risulta mai appesantito, anzi. Sale e distensione rifuggono da eventuali frizioni. Inscalfibile. Grande boccia!

Rossese 2018
Dopo una buona mezz’ora di riduzioni, inizia la sua scalata. Prima su toni amari, poi facendo pace con l’aria esce l’agrume ed un frutto rossissimo. Nonostante l’amaricante riscontrato anche al palato, che man mano si attenua, è uno dei rossese di Nino più eleganti mai bevuti, assieme alla 2010. Trama lieve, leggerezza tannica, succosità saporosa. Uno splendido rossese in divenire.

Rossese 2015 
Scuro in questa fase. Il frutto si mostra molto maturo, le radici intonano alla china, ma in compenso di ottimo equilibrio. Manca un po’ di guizzo sul finale di bocca. Aperta una bottiglia pari annata due settimane fa ed aveva più luce.

Rossese 2014 (solo per gli amici) bottiglia che si distingue dalle altre perchè ceralaccata
Una prova di Nino, tenuto 6 mesi in più in botte, 200 bottiglie prodotte, non in commercio perchè aveva qualcosa che non tornava a Nino. Acqua di lago e pietra calda, frutto e agrume. In bocca inizialmente pecca un po’ di ruvidità da tannino immaturo ma poi riesce a distendersi. Buono buono!!

 

Sono 60 anni che faccio il vino, e di annate uguali non ne ho mai fatte, c’è sempre qualcosa di diverso”.

Due vini che parlano di un territorio, di più appezzamenti di vigna, delle persone che se ne prendono cura.