08/09/2019

Mi piace l’estate. Ma forse ancor di più quel lento discendere verso l’autunno, quando le Domeniche sono uggiose, con quella pioggerella fitta che ti bagna, quel cielo plumbeo, molto British.

Una volta la Domenica era sinonimo di pranzi/abbuffate e radiolina sintonizzata su “tutto il calcio minuto per minuto” con schedine del Totocalcio al seguito. Poi è arrivato tele+, stream, sky, il take away. Fino ai giorni nostri, quando la Domenica non è più Domenica.

Sembra solo ieri che la domenica ci si chiudeva in casa con la radio, vedevamo le partite contro il muro non allo stadio…» Lucio Dalla

Stiamo perdendo il senso della Domenica, anzi, lo abbiamo già perso. I profumi della pomarola sul fuoco, i tortelli crudi rubati sopra i panni alla nonna, quell’odore di ciccia e di legna arsa. E poi si. Anche lo spezzatino del Campionato non aiuta ad esclamare DOMENICA.

Ma c’è ancora qualcosa che tiene in vita LA DOMENICA. In un certo senso quello spirito di convivialità e di familiarità che possiamo ritrovare in alcuni luoghi, dove osti, maitre, vari ed eventuali, si dedicano nella cura e nell’accoglienza verso il cliente. Si, lo fanno anche gli altri giorni della settimana, ma la Domenica, per noi umili fruitor, ci fa ascoltare la giornata molto intimamente.

La Locanda il Gallo si posiziona tra quei luoghi da inserire nella Hall of Fame. Una serenità inaudita, una precisione leggerissima, invidiabile. Francesco è l’oste, l’anima della Locanda. Ora c’è, ora non c’è più. Appare e scompare. Parole sempre calibrate, mai una di più, mai una di meno. Alessio e Jury in cucina, padre e figlio, a preparare quelle vivande che di lì a poco arriveranno sulla nostra tavola. Anche questa è Domenica. La caparbietà di chi ci ha sempre creduto, chi non ha mai mollato nel nome della qualità e dell’accoglienza. Questa locanda a gestione familiare, come molte altre, sono le colonne portanti di una ristorazione che ha bisogno di linfa vitale.
Chi permette tutto questo sono proprio quelle persone che soddisfano, ogni santa Domenica, i nostri palati, i nostri cuori. Sedersi in queste tavole è un po’come tornare a riassaporare quelle Domeniche passate, quelle Domeniche che non ci sono più.

E poi ci sono loro. Quelle due uve mai considerate nobili, ma che si legano ad una tradizione contadina, di familiarità, di convivialità, di buona tavola. Lambrusco di Sorbara e Dolcetto. Modena e Barbaresco. Marco Lanzotti e Serafino Rivella. Due storie parallele, due generazioni differenti, ma unite da un pensiero di fare agricoltura in maniera sana e trasparente.

Il Dolcetto ha un’anima contadina gentile e profuma di Langa in maniera spaventosa. Una vena rotondamente rustica, un frutto turgido, una sostanza che guarda in avanti, senza tempo. Bicchiere che ti mette voglia di viaggiare.

Il calcare della vigna di Celestino assieme alle vecchie piante di Sorbara allevate da Marco Lanzotti, confluiscono nel bicchiere, rendendo inarrestabile la voglia di bere Lambrusco. Sferza, si indigna, ritorna nel suo essere. Agrume, polpa, veridicità. Se mi chiedi quale “bolla” bere oggi in Italia, ti ripeto ossessivamente LAMBRUSCO.

La facciata è dipinta in modo e maniera da farvi credere che tutto sia bello e buono, ma è solo apparenza. La dottrina è finita.

Il vino è viaggio. Il vino è ricordo. Il vino è vita.