Mi ricordo Arcagna.

Il monte Toraggio che svetta con la sua cima più alta a 2000 metri; il mare sullo sfondo della Val Nervia e della Val Verbone.
I sette comuni che ospitano le trentatré nomeranze.

E mi ricordo Filippo, Nino, Erica, Giovanna, Maurizio.

Ricordo un bel caldo in quei giorni di fine Maggio del 2017.

Le passeggiate all’interno di alcune delle vigne più antiche: Posau, con i suoi alberelli centenari che si arrampicano verso il cielo. E poi quello struggente anfiteatro naturale che è Beragna. E ancora Curli, Pian del Vescovo, Luvaira, Arcagna. Luoghi abbracciati dalle fatiche, terra rimasta per troppi anni in disparte, ad aspettare qualcuno o qualcosa.

Ed eccoci qua, ancora una volta, a togliere quel tappo che ci separa dai ricordi, dai profumi, dai rapporti umani. Si, perchè il vino è questo. Essere in grado di farti riaffiorare nella mente quell’ospitalità, quello scambio di opinioni, quelle amicizie nate, sotto il segno del frutto, della terra. Ieri sera ho aperto il Rossese di Dolceacqua 2016 di Filippo Rondelli -Terre Bianche- ed è stata proprio la sua capacità di rispecchiare questo lembo di terra a farmi viaggiare con il cuore e con la mente.

Le sensazioni iniziali di frutto dolce, quasi banale, si fanno severe con l’aria. Ne escono profumi di gesso, di iodio, di timo secco, di resina, di liquirizia. Un assaggio sfrontato, deciso, impettito, salato. Una scorrevolezza centrale, vivace, personale. Tralasciando la bontà del vino in questione, emozioniamoci più spesso per tutto quello che ci sta intorno, al vino.
Lasciamoci andare nella bellezza della vita.