Troppe volte in consigli, appunti, gruppi, racconti, recensioni, guide, parole, opere e omissioni, si utilizza l’attributo “buono” riferito a vini che non lo sono per nulla.

Verdicchi gommati, sciacqui di kerner, metodi classici dalle filippine, sagrantini dal Lidl, sangiovesi new world, traminer isolani, bustine trentoaltoatesine, riesling di langa, chardonnay sudisti, merlot in bianco, malvasia portami via, ancestrali tutti uguali, rosati chimici, maceratoni sfiniti, anforette e tanto altro ancora.

Per cercare di correggere questa deriva mondiale bisognerebbe confrontare il vino in analisi con questo in fotografia.

Una sorta di esame a sbarramento universitario.

Il vino in esame si avvicina anche solo di un soffio al bicchiere di Adeline?

Se sì, si potrà pensare di attribuirgli l’aggettivo “buono”.

Se no, la lingua italiana giunge lesta in nostro soccorso: modesto, mediocre, scadente, dozzinale, banale, scarso, insoddisfacente, ordinario ed insignificante.