Quando si nomina “Cotat” è necessario guardare a largo spettro, ovvero a tutta la famiglia.

I due fratelli Francis e Paul, sono stati un’icona per il comparto enologico francese. Oggi, sarebbero visti come “tanti”, per quanto concerne l’artigianalità in senso lato. Pratiche agronomiche che viravano verso la sostenibilità ed il rispetto per la propria terra, per il futuro dei loro figli. Tutto questo unito al poco interventismo in cantina, ma attenzione, non stiamo parlando di vini “lasciati andare”, con volatili a 18 e Brett cavalcante, no! Il rigore e la pulizia furono un punto di forza per questi Sauvignon.

L’eredità è stata raccolta dai rispettivi figli, François e Pascal, i quali hanno seguito la scia dei loro padri, senza stravolgere quello che gli era stato insegnato. Senza fare troppo rumore e con parecchia umiltà, sono riusciti a circondarsi di celebrità, senza perdere di vista nemmeno un centimetro, nemmeno una zolla di Chavignol.

CHAVIGNOL

Uno dei quattordici comuni di Sancerre, dove il Sauvignon si esprime ai massimi livelli. Qua i terreni sono di origine kimmeridgiana, periodo del Giurassico Superiore, simili per certi versi all’Aube -il distretto più meridionale della Champagne- ed a Chablis, per intendersi. L’ ago per il quale pendeva, e pende tutt’oggi, il peso di questi vini, è proprio Chavignol.

 

Erano gli anni ’90, nelle loro etichette campeggiava a caratteri cubitali il nome del suddetto comune, relegando in un angolo “Sancerre”, ovvero il nome della denominazione.
I Cotat erano fermamente convinti di quanto si potesse differenziare un vino proveniente da un comune piuttosto che da un altro, non con una generica appellation. Ma sappiamo benissimo come questa operazione sia un’infrazione alla legge sulle denominazioni, le misure contano!

Ma c’era un problema impellente da risolvere: la cantina.

I fratelli Cotat prima, i loro figli successivamente, vinificavano e imbottigliavano nella stessa cantina; anche questo non era/è concesso dalla legislazione d’oltralpe, tant’è che Pascal, trasformò il suo garage in una rudimentale cantina, così da poter separare i vari processi con il cugino.

Una serata dedicata a Pascal Cotat.

Andiamo a vedere quali sono le differenze tra i suoi due vini.

Le Monts Damnés forse il lieux-dits più famoso della denominazione. Pascal Cotat ne possiede un parcella di 1.40 ettari, con piante di 35 anni di media d’età, nella parte più elevata del vigneto.

La Grande Côte è dislocata su di un ripido pendio. Il vigneron possiede 1 ettaro scarso. Le piante superano i 60 anni di media d’età, nella contigua valle di Amigny. I terreni sono più argillosi rispetto ai Mont Damnes.

Assaggi:

Le Monts Damnés 2015
Mostra tutta la sua tenacia, bocca spessa e avvolgente, forse anche troppo, al limite del roboante. Cedro e miele di tiglio

La Grande Côte 2015
Molto scombussolato, si muove in varie direzioni senza trovare mai la linea giusta. Alcol che prende il sopravvento, mal sorretto dalla materia. Malico troppo sfacciato.
Al contrario, olfattivamente intriga, garantendo un mix letale: pesca bianca, salvia, pompelmo rosa.
Attendere prego.

Le Monts Damnés 2014
Giriamo pagina. Già al naso è meno largo, tè verde e miele d’erika, slanciato, senza troppi orpelli. Coniuga leggerezza a profondità, finto semplice. Àà

La Grande Côte 2014
La bottiglia non è al 100%, piccola deviazione di tappo (NON TCA) mela cotogna e miele di castagno, bocca molle, senza mordente.

La Grande Côte 2013
vino dal carattere terragno, ginger e orzo, minicicciolo sparato. Con la temperatura e l’ossigeno si staglia su toni tropicaleggianti, leggeri e mai invadenti, con finale di alga e olio di zafferano. C’è più sale al palato che al naso, facendo si che il sorso prenda una curva più brillante e diretta. Nel complesso polposo e genuino.

Le Monts Damnés 2012
potrebbe sembrare granitico, la lentezza nello svolgersi va sottoscritta. Prima le vongole, quindi ricordi di un mare pieno, poi la sventagliata d’agrume bianco ed il gesso, ci dicono che si, lui andrà seguito da vicino. C’è stoffa e densità, incanalata da una dorsale acida, al limite dell’elettrico. Sale a manetta, vibrante e fibroso, con rimandi all’aneto e al cerfoglio. Davvero un gran bel vino, composto e complesso!

 

Le Monts Damnés 1999
È cristallino, luminoso, niente cenni di ambra o roba varia. Un tentennamento iniziale di mela cotta lascia spazio ad un’ampiezza olfattiva sublime. Tabacco biondo, sigaro, fieno secco. Vino silenzioso, schivo, nascosto. Entra delicato per sprigionare tutta la sua energia dinamica. Vino a più strati, dove parti morbide e dure sono un coacervo di bellezza.

La Grande Côte 1999
Le sensazioni, rispetto al fratello, sono di un vino più caldo, maturo nel frutto, ma non al capolinea, anzi.
Crosta di formaggio, fieno, albicocca. Ha densità di bocca, più sfacciato del suddetto, mostra muscoli e sostanza.

Considerazioni finali:

I Grande Cote non sono molto coerenti, sembrano “soffrire” più l’annata.

La linearità dei Damnes, la profondità quando scendiamo con le annate, la suprema eleganza. Vini mai urlati, scanditi passo per passo, con una bordata di energia che vibra su tutto il palato. I Damnes partono piano, mostrano le cosce solo dopo ore. Una femmina non ruffiana.

Au revoir.